LA STORIA DELL’ANTICA PIEVE
Stando ad una secolare tradizione, verso la metà del secolo III, in un periodo di stasi delle persecuzioni, vescovi missionari alessandrini, discepoli alla scuola teologica di Origene, evangelizzarono l’Italia settentrionale. Erano tutti di origine greca o con nome greco, come Prosdocimo per Padova, Eupreprio per Verona, Ermagora per Ravenna. La pieve di S. Maria di Sarmazza — Vigonovo, la cosidetta Antica, secondo la cronaca locale sarebbe stata eretta addirittura da San Prosdocimo, diretto ad evangelizzare Padova. E’ una pia leggenda che si smentisce da sé. E’ probabile, per non dire certo, che tale notizia sia in relazione con il passaggio del santo per la via Annia-Altinate, un tratto della quale (dal VI al VII miglio) si snodava per Sarmazza.
Conviene attendere invece circa 130 anni, vale a dire sino alla fine del secolo IV, per la data di erezione della prima chiesa in questo territorio. La sua fondazione è fatta risalire infatti a Sant’Ambrogio quando, nel 381, passò per la via Annia, diretto ad Aquileia per presiedere de facto, come metropolita dell’Italia Settentrionale, l’omonimo concilio provinciale.
Si precisa che nei secoli IV e V il permesso di erezione di una pieve spettava de jure al sovrano dell’Impero Romano, in quanto successore di Costantino il Grande, onorato dai Padri del Concilio di Nicea (325) con il titolo di isapostolo (uguale agli apostoli) e vescovo esterno. Nel nostro caso particolare l’autorizzazione venne probabilmente concessa da Teodosio il Grande (379-395) che, per giunta, risiedeva a Milano, allora capitale dell’Impero.
Venne edificata con enormi quadroni di trachite euganea del periodo paleo-veneto (per gentile comunicazione verbale del prof. Marcello Salvadori dell’Università di Roma), resti di un tempio dei secoli VI-V a. C. Esistono tuttora e misurano cm.168,5 x 51 x 48,5. Questo insigne monumento paleocristiano era lungo passi padovani 32 (m. 11,4), largo 12 (m. 4,28). Resistette alle incursioni e distruzioni dei barbari per oltre 4 secoli, fino al 780-790 circa, vale a dire fino alla cosidetta “rinascita carolingia”. Fu rispettato dalle invasioni di Attila (452), dei Langobardi (601) e degli Ungari (899). La “civiltà moderna” del secolo scorso lo demolì. Fu per iniziativa dei conti Marcello di Venezia che, divenuti proprietari dell’antico edificio, ne vendettero i conci al Comune di Padova, che li utilizzò per la ricostruzione del Ponte Molino. Ci si consola pensando che dalla rovina si salvarono un’effigie in pietra bizantino-langobarda della Vergine del tipo odighìtria (indicatrice della Via) del VII secolo, recuperata da G.Battista Carolo, parroco di Villatora di Saonara, e la campana posta sul campaniletto a vela del timpano, datata 1603, salvata dal curato di Tombelle.
In ottemperanza al suddetto rito ambrosiano, quali sacri pegni saranno stati inclusi nell’altare della pieve di Sarmazza? E’ possibile avanzare un’ipotesi. Dedicata alla Madre di Dio (dedicazione già presente in Italia, ma anomala prima del Concilio di Efeso del 431, che sancì la maternità divina di Maria), forse venne arricchita di un bràndeum o frammento di tela toccato dalla veste della Vergine, conservata in quel periodo a Gerusalemme e, sotto Leone il Grande (457-74), trasferita a Costantinopoli nella chiesa della Blacherne.
Altro elemento da sottolineare è l’ubicazione della pieve, a governo di un amplissimo territorio a sud di Padova. Nel VII secolo, durante la dominazione langobarda (anche se la documentazione è più tarda), essa vide sorgere attorno a sé numerose cappelle dipendenti, chiamate dal poeta Venanzio Fortunato turres fidei, le torri della fede, disposte lungo una sorta di misticum vallum (mistica fortificazione) circolare. Le chiesette erano tutte dedicate a santi cari al popolo langobardo: a Camin al SS. Salvatore (documento del 2 maggio dell’874); a Villatora di Saonara ai Ss. Simone e Giuda (16-12-1 ); a Saonara a S. Martino (9 gennaio 1080); a Fossò con il primo titolo di S. Martino (15-12-1073) e, dopo il terremoto del 3 gennaio 1117; con l’odierno di S. Bartolomeo; a Stra con la titolazione a S. Pietro (10 maggio 883); infine, a chiusura del cerchio, a Noventa con il nome dei Ss. Pietro e Paolo (20 aprile 918).
LA STORIA DELLA CHIESA ODIERNA
Nel periodo delle scorrerie barbariche i vescovi di Padova si trasferirono a Malamocco. Il trasferimento fu inizialmente temporaneo, con alternanze tra Padova e Malamocco. La permanenza definitiva nella città lagunare iniziò sotto l’episcopato di Vitale (663-676) e durò 146 anni, fino al 793, allorquando il Vescovo Tricidio, durante l’impero di Carlo Magno, riportò la sede a Padova. Qui egli morì e in questo periodo nella diocesi di Padova vennero fondate o ricostruite (è il nostro caso particolare) 16 pievi (dal latino plebs, “popolo” è una chiesa rurale con annesso battistero. Nell’Alto Medioevo la pieve, detta chiesa matrice o plebana, era al centro di una circoscrizione territoriale civile e religiosa. A essa erano riservate alcune funzioni liturgiche e da essa dipendevano altre chiese e cappelle prive di battistero[1]. Dal Basso Medioevo le funzioni proprie della pieve passarono alla parrocchia), tutte dedicate alla Vergine Assunta: titolo ecclesiale codesto solennizzato a Gerusalemme già nel IV secolo.
Per Vigonovo la seconda pieve fu eretta sulle rovine di un preesistente tempietto romano del III o II secolo a.C. Venne adoperato materiale fittile di spoglio, risalente al periodo romano bizantino. Del primo figurano pezzi di ebrici labiati e di laterizi di misure varie, del secondo mattoni dal caratteristico color rosso intenso, tutti visibili nel paramento murario di meridione. Nel tempietto romano invece si scoprirononel 1967 le fondamenta a cortina muraria, formate da lateres cocti (mattoni cotti) ed opus testaceum (opere interracotta). Osservanmdo i paramenti murari settentrionali e meridionali, la costruzione dell’edificio dev’essere stata al quanto frettolosa. Lo evidenziano l’assemblaggiotalora caotico del materiale eterogeneo utilizzato e la mancanza, a coronamento della sommità, degli archetti penduli a tutto sesto, tipico ornamento dello stile romanico usatissimo in epoca posteriore. Era a tre navate, la mediana delle quali con copertura a capanna le altre due più basse e con il tetto ad una sola falda o displuvio.L’interno era delimitato da una doppia serie di colonne romane a sedici scanalature, sormontate da capitelli corinzi. L’abside si componeva di tre semicerchi , con il centrale più ampio, secondo i canoni costruttivi del periodo bizantino. Come architrave della porta centrale venne impiegato u manufatto lapideo romano, ritenuto del I secolo a.C. Tutta la costruzione misurava 68 passi padovani (metri 24,32) e 30 di larghezza (10,72).
L’orientamento avrebbe dovuto seguire la prassi in uso presso tutte le basiliche paleocristiane, più o meno ampie che fossero. L’asse mediano doveva coincidere con l’est astronomico della festività del santo, al quale era dedicata l’edificazione. Per meglio intenderci, si doveva spettare, nel nostro caso particolare, la levata del sole al 15 Agosto, festa dell’Assunta; si tracciava quindi, in perfetto allineamento con il punto di levante , un asse che transitava idealmente prima per l’altar maggiore e poi per la porta principare che si perciò a trovare a ponente. Essendo però la nostra pieve eretta sulle fondamenta di un preesistente tempietto romano, il suo asse mediano non si basava sell’est astronomico del 15 Agosto, spostato invece di 40 gradi a nord, ma invece sull’orientamento dell’edificio sottostante. Il perfetto all’ineamento si verifica infatti il 3 ottobre, quando la religione politeista romana festeggia il mundus Cereris , il regno di Cerere, divinità conosciuta anche come Demetra e Cibele. E proprio quest’ultima dea, la “Grande Madre”, potrebbe essere stato dedicato il tempietto romano. Tale struttura originaria perdurò integra più di 900 anni, fino al 1730 circa, quando malauguratamente si intraprese la trasformazione secondo le forme ancora presenti. Cambiò radicalmente l’allineamento, da est-ovest a ovest-est, per ottemperare ad un decreto del cardinale Gregorio Barbarigo, emesso il 27 settembre 1690, in occasione della sua visita pastorale a Vigonovo (Cfr.”Visitationum“, vol 59, PD. Curia vescovile), nel quale “auspicava l’opportunità che il primitivo orientamento venisse invertito“. Vennero tolte le colonne scanalate e ridotti in rocchi che furono sistemati nell’orto retrostante la casa canonica; tolti di lì vennero seppelliti negli anni ’50 in una fossa sita a ponente dell’allora cinema parrocchiale.Le tre navi originarie furono ridotte a una prolungata di metri 10,75, in direzione di levante. Si rimossero anche i tre altari , uno dei quali in legno policromo del ‘500, venne traslato nella chiesetta di S. Maria del Soccorso o del “Capitello”, sita nella frazione di Tombelle; probabilmente fu quello dedicato a S.Lorenzo, oggidì a S.Romualdo, compatrono della suddetta località. Detti altari furono sostituiti da altri cinque tutti in marmo, di effetto monumentale, ma carenti del “bacio” della religiosità dei padri antichi e della sensibilità magistrale del periodo rinascimentale.
Le modifiche non si fermarono qui. In epoca abbastanza recente, nel 1875, si sostituirono le tavelle a spina di pesce dell’antichissimo pavimento con marmi rossastri di Verona, provenienti dalle cave di pove, nei pressi di Bassano.L’intervento comportò la distruzione delle lapidi sepolcrali che ricordavano personaggi delle famiglie Damiani, Alvarotti e Zambelli, e delle pietre anepigrafe che ricoprivano le tombe dei rettori della pieve e dei confratelli delle fraglie o confraternite.
Pochi anni dopo, nel 1888, si diede inizio alla costruzione dell’odierno campanile. Il precedente, risalente ai secoli XIII-XIV, era divenuto pericolante a causa dell’inclinazione di m. 0,90 rispetto all’asse perpendicolare; era stato quindi demolito nel 1886.
Le macerie ridotte in frantumi servirono per le fondamenta del nuovo, che, pur ripetendo la stessa forma del medievale, fu eretto circa 3 metri più a nord, con una spesa complessiva di lire 33.038,10 dell’epoca, “comprese £. 850 per competenze dell’ingegnere Vendrasco”. Il termine dei lavori si ebbe nel 1895. L’inaugurazione avvenne solo il 28 aprile del 1905, subito dopo l’innalzamento delle tre campane.
Un altro importante intervento fu operato nel 1922 con la costruzione del transetto che, tagliando orizzontalmente la navata, comportò l’ampliamento dell’edificio, l’erezione di due cappelle laterali e una nuova struttura planimetrica a croce latina. Le nuove misure sono quelle presenti tuttora: lunghezza totale metri 45,5; larghezza della navata m. 13 e, con le due cappelle del transetto, m. 23,5; larghezza delle cappelle m. 6,5. Importantissime furono in quell’occasione due scoperte. Tra due muri apparve un affresco della seconda metà del XV secolo, raffigurante una “sacra conversazione” tra la Vergine con il Bimbo e i Santi Sebastiano e Rocco. In un angolo poi delle fondamenta di mezzogiorno dell’abside, fu trovato un crocefisso di oricalco, posto da don Giacomo Lamari all’atto di fondazione della chiesa settecentesca.
Talmente radicali però furono i restauri apportati che si ritenne opportuno impartire una seconda consacrazione della chiesa. Quella precedente risaliva alla seconda domenica di settembre (come commemora ancora la sagra annuale) dell’801, per mano probabilmente del vescovo di Padova Tricidio. Quella nuova avvenne il 21 agosto del 1947, celebrata dal vescovo di Padova Carlo Agostini, secondo i dettami del canone 1170 del vecchio Codice di Diritto Canonico, che obbligava alla collocazione sulle pareti di nuove croci crismali, in sostituzione delle antiche, tolte nel ‘700.
Ultima in ordine di tempo è stata la costruzione, al centro del presbiterio, di un altare marmoreo, in ottemperanza alle disposizioni del Concilio Vaticano II in materia di riforma liturgica. Si è voluto così ripristinare un’antica usanza paleocristiana e medioevale, che vedeva il celebrante rivolto verso l’assemblea dei fedeli e non verso il tabernacolo. Vi è però chi ritiene che questo rimando sia un anacronismo storico in quanto, nell’antichità, la celebrazione della Messa sarebbe stata solo in apparenza orientata verso il popolo; aveva infatti un unico punto direzionale, l’oriente, il luogo dove sorge il sole e dove nacque Cristo, il vero sol invictus, sole invincibile. Al di là delle diverse interpretazioni della tradizione, è importante sottolineare il ruolo nuovo che, nel cambiamento dei rituali, ha assunto il sacerdote, inteso non solo come officiante del Divino Sacrificio, ma anche come presidente della Comunità e annunciatore della Parola.
L’ESTERNO

Chiesa Santa Maria Assunta
L’edificio, rivolto verso levante, ha le pretese di una certa monumentalità, ispirata forse da quei canoni neopalladiani che influenzarono le trasformazioni di numerose chiese intorno alla metà del ‘700, sotto i vescovi Minotto-Ottoboni e Rezzonico.
La facciata, scandente in forma rettangolare, è ornata da quattro lesene in lieve aggetto, coronate da semicapitelli in stile corinzio. E’ ripartita in tre vani: il centrale include la porta coronata da un arco a tutto sesto, ornato da dentellatura cuboiforme.
Il rettangolo è completato da un triangolo isoscele angolato a 25 gradi, ornato da 27 dentelli cuboiformi all’esterno della base e da 25 all’interno dei lati. Al centro un oculo-rosone circoscrive una stella a otto punte: elemento antichissimo e tanto caro alle speculazioni fantastiche degli Gnostici dei secoli III e IV d.C., secondo i quali i raggi erano disposti a sizighìa, vale a dire divisi in quattro coppie secondo un ordine gerarchico discendente. Iniziando dall’alto essi leggevano i binomi Abisso-Silenzio, Intelletto-Verità, Logos-Vita, Uomo-Chiesa.
A ben guardare, nei tre vani di riposo, s’intravedono a mala pena, nonostante la ridipintura del 1968, le sinopie di tre guazzi dipinti dai f.11i Giacomello di Saonara ne11926 ed inaugurati, assieme al transetto, il 15 agosto dello stesso anno da mons. Giuseppe Sanfermo di Venezia, abate di Santo Spirito.
La Vergine occupava la parte centrale. Ai suoi piedi due angeli, in ginocchio, sostenevano un cartiglio sul quale era scritta la seguente legenda: “D.O.M / ET M. V ASSUMPTAE /IN CELUM” (così, senza dittongo), “Questo tempio è dedicato a Dio Ottimo e Massimo e a Maria Vergine Assunta in cielo”. Ai lati figuravano due pseudo edicole di stile rinascimentale con le immagini di S. Pietro apostolo a sinistra e di S. Paolo a destra. Due fasce rettangolari sovrastavano le edicole e univano i semi-capitelli delle paraste; rappresentavano un Cuore di Gesù circondato da nubi e una croce cosmica. Il costo di tutta la decorazione ammontò a lire 8.000.
Le mura perimetrali di nord e sud, appartenenti fino ad una certa altezza alle due navi della pieve del secolo VIII, testimoniano – come già dicemmo – la frettolosità con cui tale edificio venne costruito. Si adoperarono (e sono tuttora visibili) materiali di spoglio di diverse specie ed età, come embrici labiati, due dei quali recano impressi i bolli del figulo (vasaio), e mattoni romani e bizantini, quest’ultimi di un rosso vivo, inseriti soprattutto nel muro a sud. Degne di nota, per la loro rarità, sono tre formelle bizantino-barbariche, di marmo pario del secolo V, recanti in bassorilievo il cosidetto “motivo a tenaglia”, il cui prototipo orna la base della cupola monolitica del mausoleo di Teoderico a Ravenna. Il prolungamento invece di metri 10,75 verso levante, operato nel secolo XVIII, è formato da mattoni stesi ad opus latericium.
Poco discosto dal lato destro s’innalza il campanile, alto m. 51,5. Il basamento è a forma di piramide tronca, costruita con trachite euganea disposta a bugnato. Sopra la cella campanaria s’allunga una guglia di m. 10, ricoperta di lastre di piombo, pesanti complessivamente 45 quintali. Segue il pinnacolo in ghisa con una croce a multibracci, abbellita ai terminali da globetti in rame dorato. Le campane sono in numero di quattro: tre provengono dalla precedente costruzione, una è stata posta nell’agosto del 1988
L’INTERNO
PARETE E TRANSETTO DI SINISTRA
Il percorso di lettura dell’interno della chiesa parte dalla porta maggiore d’entrata e procede da sinistra verso destra.
Per prima scorgiamo in alto una tela con Santa Francesca Romana che bacia il costato di Cristo. E’ la prima delle quattro opere, qui presenti, di Pietro Damini di Castelfranco Veneto (1592-1631). Tutte misurano cm. 160 x 240. Provengono dalla chiesa di Padova di San Benedetto Novello dei monaci olivetani. Soppresso il monastero e dispersi i monaci nel 1810, durante il periodo napoleonico, i beni mobili ed immobili vennero requisiti dal demanio e venduti al miglior offerente.
Considerata la quadruplicità delle opere riguardanti lo stesso personaggio, ci sembra opportuno stenderne una breve biografia. Francesca Romana nacque a Roma all’inizio del 1384. Si maritò ed ebbe tre figli. Visse in un periodo turbolento, causato dall’anarchia per lo scisma d’Occidente, quando Roma era in balìa del banditismo e delle fazioni dei Colonna e degli Orsini. Il 15 agosto del 1425 Francesca istituì la Congregazione delle Oblate benedettine di Monte Oliveto Maggiore nella chiesa di S. Maria Nova al Foro Romano, oggigiorno S. Francesca Romana. Nel 1433 le monache si riunirono ai piedi del Campidoglio, nel monastero di Tor degli Specchi, dove la fondatrice si spense il 9 marzo dello stesso anno. Fu iscritta nel canone dei santi il 29 maggio del 1608 dal papa Paolo V.
Ritornando al dipinto, la scena raffigurata è un insolito nell’iconografia della santa. Il committente volle di certo ricordare la devozione di Francesca alle piaghe di Cristo, in particolare a quella del costato. Si tramanda infatti che “allorquando meditava sulla ferita menzionata, si commuoveva intensamente”. La composizione è circoscritta da un rettangolo nel quale il Redentore ferito occupa la parte centrale, accostato alla santa e attorniato da angeli e cherubini in posizione di riverente servizio.
Per il soffuso cromatismo, l’intensità espressiva e la solenne maestà del Cristo, l’opera presenta notevoli qualità artistiche, di poco inferiore all’altra bellissima opera del Damini, l’apparizione dell’angelo, di cui parleremo in seguito.
Segue la raffigurazione di un altro episodio della santa, il miracolo dell’uva. Si tramanda che in un giorno d’inverno le suore Oblate, recatesi in un podere fuori Roma per raccogliere legna, ebbero sete. La fonte era lontana e Francesca, impietositasi, rivolse una preghiera a Dio e dai tralci spogli di una vite spuntarono pampini e grappoli.
Nella parte inferiore della composizione, sotto il vasto pergolato, figurano otto personaggi. In primo piano vi è la santa, accompagnata dall’angelo guida. Il suo atteggiamento, tutto compreso nella visione mistica, ripropone i rigorosi canoni stilistici incoraggiati dalla Controriforma tridentina e contrasta con la mancanza di espressività e calore delle comparse dello sfondo.
Il primo altare che si incontra è l’Altare della Pentecoste.
E’ il primo dei sei che ornano la chiesa, costruito in laterizio con il paliotto e le fiancate di marmo giallognolo, striato di verde scuro. E’ semplice se paragonato a quelli coevi, evidentemente confezionato per una chiesa relativamente povera. Lo dimostrano le esigue e tanto usuali incrostazioni marmoree, che dimostrano una pretesa tutta campagnola di monumentalità, più apparente che reale.
Il dossale è composto da due colonne sormontate da capitelli corinzi che, a loro volta, sostengono i tronconi di un arco ribassato e spezzato sui quali poggiano due angeli sdraiati e rivolti verso la parte mediana sottostante. Qui si trova una pala settecentesca contornata da un’elegante cornice marmorea, adornata sulla sommità da una raggiera che, in tempo non lontano, era impreziosita da una colomba lignea dorata, scomparsa come tantissime suppellettili sacre.
Il dipinto è un lavoro di Giandomenico Tiepolo (Venezia 1727-1804), figlio e discepolo del grande Giambattista. Secondo il parere di alcuni critici, è databile dopo il 1770, anno della morte del padre del pittore. Riteniamo però che tale valutazione sia del tutto infondata. La pala è da anteporsi al 1755-60, quasi in concomitanza con i lavori di trasformazione della chiesa plebana. Sostituì una precedente dello stesso soggetto, ampiamente documentata, e fu un munifico dono della nobile famiglia Sagredo. Si è quasi certi che fu elargito da Agostin Sagredo di sier Francesco del ramo Giovanni, il celebre letterato ed ambasciatore.
Stilisticamente l’opera risente del formalismo manieristico, che vorrebbe tendere al monumentale ed elevarsi alle cime del misticismo insuperabile di Giambattista. La composizione del gruppo apostolico è poco ordinata, le figure mancano di vibrazioni coloristiche; si distingue la figura della Vergine Maria per il fulgore del cromatismo e la solenne espressività del rapimento estatico. I restauri avvennero negli anni 1883 e 1973.
Più avanti, in alto, sopra la “porta degli uomini”, troviamo altri due dipinti. Il superiore è un olio su tela di Anonimo del secolo XVIII. Rappresenta la distruzione del tempio dei Filistei per opera di Sansone (dall’ebraico Simson, “figlio del sole”), l’ultimo dei Giudici (Giud. 15,20; 16,31). Sono note le vicende sentimentali che lo legarono alla perfida Dalila che lo tradì consegnandolo ai Filistei. I quali, dopo averlo accecato, lo condannarono a girare una macina per cereali. Divenuto zimbello dei suoi nemici, si fece condurre un dì nel loro tempio e, dopo aver imbrancato i due pilastri portanti, lo fece rovinare gridando: “Muoia Sansone con tutti i Filistei” (frase divenuta proverbiale).
Più sotto, con le stesse misure e forse della stessa mano del precedente, il quadro con il giudizio di Salomone. Il secondo re di Israele, figlio di Davide e Betsabea, regnò dal 970 al 931 avanti Cristo. Fu unificatore del regno e costruttore del primo tempio di Gerusalemme. Celebre l’episodio qui descritto (I libro dei Re 3,16-28). Due prostitute, abitanti della stessa casa, partorirono un figlio ciascuna. Uno di essi morì, schiacciato accidentalmente dalla madre nel sonno. Costei, accortasi della disgrazia, tolse il bimbo vivente alla compagna, sostituendolo con il morto. Se ne accorse la defraudata e la citò in giudizio al tribunale di Salomone. Costui, udite le parti in causa, ordinò che il bimbo vivente fosse diviso in due parti, ognuna delle quali consegnata alle due donne. Annuì la falsa madre. Si oppose invece la seconda. Il re comprese allora chi fosse l’impostora e ordinò che il figlio ritornasse alla vera genitrice. Il giudizio divenne celebre e diede origine all’epiteto “giudizio salomonico”.
Segue l’altare della Vergine Assunta, titolare della pieve.
Qui venne usata la stessa tecnica costruttiva del precedente altare, con il rivestimento marmoreo decorato ad intarsi lapidei mistilinei. La nicchia è occupata da una graziosa effigie ricavata dall’unione di due pezzi, l’anteriore di pietra, il posteriore di legno duro. Rappresenta la titolare che regge sull’avambraccio sinistro il divino infante con il globo crociato tra le mani, per indicare il suo appellativo di cosmokràtor, reggitore e signore del mondo.
La Vergine è lievemente inclinata verso il Figlio. L’espressione del volto è dolcissima e contrasta con lo sguardo leggermente severo del Bimbo. Il peplo è rivestito di foglia d’argento. Il velo che le scende dal capo fino ai piedi, detto omoforion, è invece di intenso colore bianco, simbolo della sua verginità. Due corone sbalzate e cesellate, recanti i marchi della Serenissima Repubblica di Venezia (l’uno dell’argentiere, l’altro dell'”assaggiatore” ufficiale) ornano le teste dei due protagonisti.
La scultura è stata eseguita intorno alla metà del ‘700 e non è unica nel suo genere. Una simile fu vista anni fa in una chiesa sita nei pressi di Vigodarzere.
Nel transetto di sinistra si trova l’affresco della Madonna della Salute.
Rappresenta la “sacra conversazione” tra la Vergine, assisa sul trono “in maestà”, e i santi protettori contro la peste, Sebastiano e Rocco, il primo a sinistra, il secondo a destra. Il tutto è racchiuso da una lunetta che misura cm. 142 di altezza e cm. 210 di lunghezza.
Venne scoperto 1’8 febbraio del 1923, nel corso del lavori di ampliamento della chiesa per l’erezione del transetto. Dipinto su un muro di epoca carolingia della fine del secolo VIII, venne occultato per lungo tempo da un paramento murario innalzato per la cosidetta “nuova sagrestia”. Fu staccato dai periti diretti dai proff. Franceschetti di Padova e Max Ongaro di Venezia, i quali lo inviarono in quest’ultima città per il necessario restauro. Restauro che, a parere di analisti recenti (come l’arch. Vanni Tiozzo), risulta men che mediocre. In quell’occasione infatti, dopo aver fissato con la malta l’affresco su un graticcio, si dipinse un perizoma per coprire le nudità di S. Sebastiano e reintegrarono le parti mancanti mediante grossolani ritocchi. Tali interventi dovrebbero essere tolti con il nuovo restauro.
L’opera è di scarso valore artistico, anche se nel 1923 venne attribuita a Cima da Conegliano o alla sua scuola. E’ valida però sotto il profilo storico-documentario sia per Vigonovo che per tutto il circondario. Riproduce il castello dei Dalesmanini, una potente famiglia padovana che fino al 1300 esercitò sulla plebe di Sarmazza sia il mixtum che il merum imperium, cioè sia l’autorita mitigata the quella assoluta. Alcuni suoi membri furono arrestati qui a Sarmazza da Ezzelino III da Romano durante la sua fulminea conquista del territorio.
Il maniero figura nella sua struttura originaria del secolo X (930-950). In precedenza era stato castellaro romano (IV secolo) e fortezza bizantina durante la guerra gotica (sec. VI). La sua costruzione fu dovuta all’editto di Berengario I che ordinava l’incastellamento del Padovano dopo la disastrosa incursione degli Ungari (899). E la forma rimase tale fino alla sua trasformazione in villa veneta operata dai Barbaro di Venezia, dopo l’ordine di distruzione di tutte le fortificazioni padovane, emesso i130 giugno 1525 dal Senato della Repubblica Veneta.
Sullo sfondo si notano anche alcuni fabbricati della Sarmazza del ‘400. In particolare, a11a sinistra dello spettatore, vie un edificio accostato ad un campaniletto, nel quale e possibile ravvisare la chiesetta del romitorio dei Padri Camaldolesi di Tombelle.
Sul primo dei due gradini del trono della Vergine e dipinta la seguente legenda: “Soto la Masaria de Sperandio de Nicholao e de sier Andrea de lachomo Tono”. Sul gradino minore invece si legge la frase acefala : “…Eo fato sta”, dove le died_ lettere reputate mancanti possono essere intraviste e ricostruite mediante la scansione ultrasonica termovisiva. Tutto it testo ricorda probabilmente sotto quali massari della chiesa o della confraternita mariana e stata commissionata l’opera.
La datazione non offre molti margini di incertezza. L’affresco, a causa della raffigurazione del castello, e sicuramente precedente al 1525. Anzi ne e documentata la presenza gia it 2 ottobre 1489, nella relazione della visita pastorale del vescovo di Padova Pietro Barozzi, cioe a soli quattro anni dalla traslazione delle reliquie di S. Rocco da Voghera a Venezia (24 febbraio 1485). In quell’occasione it patriarca veneziano Maffeo Girardi (1466-1492) confermo Fautenticita dei resti, in base all’accertamento di una presunta osteoporosi sulla tibia della gamba destra. Quella stessa che it S. Rocco dell’affresco si tocca per indicare un bubbone della peste.
L’ALTARE MAGGIORE:
Lo stipite è un parallelepipedo, formato da laterizi cementati con malta e rivestito da una massiccia impellicciatura di marmo di Carrara. La parte frontale si divide in tre riquadri, delimitati da quattro cornici listellate. Quello centrale è adorno di una figura geometrica ovoidale di marmo verde scuro con decorazioni fitomorfe. Nei due riquadri laterali spiccano altrettanti rettangoli di marmo nerastro sui quali fanno mostra di contrasto un paio di tralci con grappolo, di marmo candido. Le fiancate sono dello stesso materiale lapideo dominante.
Sopra la mensa, maestosamente bello nelle sue purissime linee architettoniche, s’erge il tabernacolo, sempre di marmo di Carrara, il cui frontone è ad arco spezzato a tutto sesto, con la cuspide formata da una conchiglia ieratica con il muscolo rivolto verso il basso: particolare codesto proprio dell’arte bizantina, mentre l’occidentale inverte la posizione.
Sottostanti all’elemento descritto, notiamo due bellissime testine di cherubini adoranti. Due lesene a lieve aggetto, sormontate da semi-capitelli di stile corinzio, delimitano i tre scomparti. La porticina è di rame dorato e reca sbalzata e bulinata la scena della deposizione dalla croce del cadavere di Cristo: opera significativa di un anonimo argentiere della metà del Settecento.
Sovrasta il tabernacolo, per due terzi all’incirca, un altrettanto solenne tempietto-ostensorio a forma di guglia quadrilatera che, all’altezza del timpano, va rastremandosi in tre tronconi, l’uno sovrapposto all’altro. Sopra grava una semicupola di marmo verdastro, screziato di venature biancastre. Il vertice a forma di piramide tronca, termina in un ottagono che regge la statuina di Cristo risorto, reggente con la sinistra un labaro di rame dorato con croce latina, mentre con la destra indica il Cielo in segno di vittoria.
Altri particolari meriterebbero descrizione ed approfondimenti. Si accenna di sfuggita solo ad alcuni, come le incrostazioni policrome marmoree che ornano la guglia per l’ostensione del SS. Sacramento, il cui schienale interno è ornato di nubi dalle quali fuoriescono teste cherubini in bassorilievo. Ancor più degni di nota, per la bellezza espressiva, i due putti sdraiati sul timpano in forte aggetto dell’archetto trionfale del manufatto. Non vi è documentazione scritta che attesti il nome dell’autore o degli autori di tutta l’opera d’arte. Un’attenta comparazione stilistica tra questo altare e quello noto della chiesa di Caltarta, fa pensare allo scultore Francesco Rizzi di Veggiano. Tale attribuzione è poi convalidata dai due stupendi angeli marmorei che lo affiancano: quello di sinistra reca incisa la sottoscrizione del maestro, il cui ductus (Franc.° Rizzi F.), inclinato verso destra, reca le particolarità grafiche del secolo XVIII. Più difficile invece è definire la data di esecuzione dei tre manufatti (altare, tabernacolo ed angeli) in relazione all’anno di trasformazione della chiesa, antecedente al 1739. Qualora si sia dell’opinione che l’unico autore sia il Rizzi, nato nel 1739 a chiesa già trasformata, è possibile ritenere che la commissione gli sia stata ordinata in giovane età (a soli 13 anni fu aggregato come socio de jure della fraglia dei tagiapiera), verso cioè il 1759-60. Anche se l’esecuzione può aver occupato diversi anni.
TRANSETTO E PARETE DI DESTRA
S’inizia dal piccolo altare dedicato a S. Luigi Gonzaga. E’ di marmo di Carrara, nobilitato da incrostazioni policrome dello stesso materiale lapideo. Due colonnine scanalate, ornate di capitelli corinzi, sostengono i soliti tronconi di arco spezzato, gravati da due angioletti in posizione sdraiata. La nicchia contiene una statua di scagliola di gesso, opera ricavata da matrice e coeva all’acquisto dell’altare che la ospita (1898), proveniente dalla diruta chiesa di Albignasego.
Ospitò la Compagnia dei Luigini, ragazzi dai 10 ai 15 anni, che venne istituita nell’anno suddetto ed aggregata alla primaria di Roma. Gli aderenti vestivano una talare nera, sovrastata da una mozzetta di tela azzurra; portavano, appeso sul lato sinistro del petto, un medaglione argentato (dorato per il “capo”) con l’effigie punzonata del Patrono. Furono gli accompagnatori usuali dei funerali; per tale servizio percepivano, verso il 1900, un obolo che variava dai 10 ai 50 centesimi. Nei funerali dei più abbienti l’offerta era completata dall’omaggio di un cero, prezioso in un tempo nel quale era sconosciuta l’illuminazione elettrica.
Sul fondo del transetto è stato sistemato in epoca recente il fonte battesimale, in pietra d’Istria, del secolo XVI. Un tempo era coperto da una struttura lignea conoidale, sovrastata da una statuina di S. Giovanni Battista nell’atto di versare l’acqua contenuta in una ciotola. Ricorda il rito penitenziale impartito a Cristo agli inizi della sua vita pubblica e narrato nei tre vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca. Qui è efficacemente raffigurato in una tela ad olio di un pittore locale, Raffaele Marigo, caratterizzata dall’iridescente tenuità del cromatismo.
La composizione, iscritta in una piramide ideale, è spostata verso sinistra
per lasciare il posto centrale a Cristo, in piedi con la testa china e le braccia incrociate sul petto. Sullo sfondo defluisce il Giordano, il fiume sacro a due religioni monoteistiche (l’ebraica e la cristiana) e tanto celebre da essere menzionato per ben 180 volte nei libri canonici del Vecchio Testamento e per 14 nel Nuovo. Delimitato dalla sommità della centina, uno squarcio di luce erompe dallo strato di nubi per circondare la colomba, simbolo dello Spirito Santo.
Ritornati nella navata, in alto sulla parete si vede appesa la pala del S. Rosario, un dipinto del padovano Pietro Liberi, nato nel 1614 e spentosi a Venezia nel 1687. Stilisticamente l’artista è ritenuto “degno successore ed emulo del Padovanino”, pseudonimo di Alessandro Varotari (1590-1631). La tela ad olio, di forma rettangolare, misura cm. 144 per 214 e proviene dalla chiesa padovana dell’Immacolata, che a sua volta l’aveva ricevuta in proprietà dalla chiesa di sant’Agostino di Padova, dei Frati Predicatori, tempio del più elevato stile gotico, barbaramente distrutto nel 1819, dopo circa 524 anni di esistenza. L’acquisto della pala venne operato da mons. Pietro Panozzo, forse motivato dalla presenza in parrocchia di un’antica Confraternita del S. Rosario, ripristinata, dopo la soppressione napoleonica, il 27 agosto 1865. I confratelli ne festeggiavano la solennità la prima domenica di ottobre (quando non cadeva il 7 dello stesso mese), a ricordo della vittoria dei cristiani contro i turchi a Lepanto (7 ottobre 1571), attribuita dal papa Pio V proprio all’intercessione della Vergine. Per tale ricorrenza, intorno agli anni trenta, a Vigonovo, si accendevano due grandi candelabri davanti alla pala, allora sita sopra la bussola della “porta delle donne”, a tramontana. A quel tempo era delimitata da una centina dipinta, probabilmente per adattarla ad una cornice d’altare: tale particolare abusivo venne tolto con il restauro del 1973.
La sacra conversazione è divisa in due registri. Nel superiore, che comprende anche la parte mediana, è figurata la Vergine in età giovanile, vestita di una sgargiante veste purpurea. E’ seduta su una nube, nell’atto di porgere la corona del rosario a san Domenico di Guzman, genuflesso alla sua destra, mentre il bambino Gesù fa scendere un’altra corona sulla mano sinistra di santa Caterina da Siena, la monaca domenicana ambasciatrice della Repubblica Fiorentina presso i papi di Avignone e mistica scrittrice (13471380). Un angioletto, seduto nell’estremità inferiore, funge da raccordo tra i due santi: regge infatti con la mano diritta un giglio, simbolo precipuo di Domenico, e con la sinistra una corona di spine, attributo di Caterina. In alto, a coronamento della scena, su uno squarcio di cielo giallognolo a sfumature azzurrognole, è figurata un’ellisse, composta da una miriade di angioletti festanti, molti dei quali reggono strumenti musicali.
In relazione alla tipologia, nei ritratti sono presenti tre stili. Alla maestria del Rinascimento rimandano la figura della Vergine (ispirazione correggesca) e il girotondo angelico (richiama quello tizianesco dell’Assunta dei Frari, in Venezia). Più rococò ci sembra S. Domenico, mentre S. Caterina appare inizialmente inclassificabile. Pazienti ricerche d’archivio e di comparazione stilistica ci confermano che quest’ultima figura è la copia del ritratto autentico della santa senese, dipinto dal suo discepolo Andrea Vanni (1332-1414), conservato a Siena nella basilica di S. Domenico.
Dal confronto sono emersi due particolari di grande interesse. Il primo è costituito dall’asse mediano del volto della santa, che, rispetto alla linea perpendicolare, forma un arco di 20 gradi rivolto sulla destra, così come in altri due ritratti-copie di nostra conoscenza, il primo dei quali di Francesco Vanni (1563-1610). Nel nostro caso il profilo sinistrorso può essere motivato dal posto occupato nella composizione, a destra, in rapporto speculare con S. Domenico. Il secondo particolare riguarda le stimmate, qui mancanti, ma presenti nel dipinto di Francesco Vanni.
Nel complesso l’opera, nonostante il manifesto eclettismo, è degna di ammirazione. Può essere datata intorno al 1644, poco dopo che l’artista si era stabilito a Venezia, proveniente da due anni di permanenza a Siena (1641-1643).
L’altare di S. Antonio da Padova
è per forma e per sovrastrutture del tutto simile ai precedenti descritti. Si differenzia il dossale, ornato di tre croci di marmo verdastro, a bracci uguali, poste in fascia di tasselli romboidali e a linee mistiformi di marmo nerastro. La nicchia racchiude una bella statua lignea, alta poco meno del naturale, rappresentante S. Antonio da Padova. Merita soffermarsi sulla dolcezza del volto del taumaturgo, tutto soffuso di serena tristezza. Un tempo, non remoto, stringeva con la mano sinistra un giglio d’argento, ora scomparso.
Sopra la “porta delle donne” è appesa un’altra opera del pittore locale Raffaele Marigo, un dipinto ad olio di cm. 150 per cm. 96_ Rappresenta la Trasfigurazione di Cristo, l’episodio evangelico narrato dagli evangelisti Matteo (17,1-13), Marco (9,2-13) e Luca (9,28-36). Riproduce, in proporzioni minori, il registro superiore di una famosa e bellissima tela del Raffaello, conservata nella pinacoteca della Città del Vaticano.
Segue l’altare di S. Giuseppe, nel quale si distingue il dossale di marmo biancastro, venato di striature verdastre e ornato da una tarsia di color nero a linee mistiformi.
La nicchia conteneva, un tempo non lontano, una maestosa statua policroma con ornamenti d’oro zecchino, figurante il Sacro Cuore di Gesù. Venne sostituita, intorno agli anni 1975-1976, non si sa il motivo, con l’odierna di Giuseppe, santo tanto caro e venerato nei primi decenni del secolo. Egli regge in posizione supina il Bambino di cui è il padre putativo. La scultura è recente, opera di un artigiano di Ortisei.
Sul fondo della parete sinistra ritroviamo i due ultimi teleri del Damini. Il primo raffigura, entro uno schema piramidale, l‘apparizione a S. Francesca Romana del figlio Evangelista e di un angelo. La biografia della santa tramanda infatti che un giorno, mentre era assorta in preghiera, le apparve il figlio, morto di peste l’anno precedente (1411); egli le presentò il celeste messaggero che le sarebbe stato di guida e di conforto per tutta la vita.
Delle quattro opere del Damini, presenti nella chiesa, questo è ritenuto il capolavoro per la sapiente composizione e la raffinatezza tonale, giocata su un ristretto registro di colori. Le due figure incorporee, rischiarate dalla luce dell’aureola, contrastano con la zona d’ombra dove Francesca è fissa in atteggiamento estatico. Per mera curiosità completiva, nel 1943, ne vedemmo una copia, o replica che sia, a Roma, nella chiesa di s. Francesca Romana.
Nel quadro successivo, i funerali di S. Francesca, la scena è suddivisa in due
piani. Nel superiore le spoglie della santa sono distese sul cataletto funera-
rio, circondate da quattro monache oranti e piangenti e da altrettanti ceri accesi. Nella parte sottostante sono ritratte alcune comparse: un nobile vestito alla moda spagnolesca, una donna con un bellissimo putto fra le braccia (il migliore tra tutti i personaggi), un popolano, un giovane accovacciato (figura inespressiva che nuoce alla composizione) e una donna inginocchiata a mani giunte, nell’atteggiamento di orante. Unica protagonista invisibile è la morte. Tutti assistono quasi da apatici spettatori alla sua vittoria, impossibilitati a svelarne l’ineffabile arcano.
A conclusione del percorso circolare lungo le pareti, merita porre l’attenzione ancora su due opere. Innanzitutto la Via Crucis, l’insieme di quattordici scene che narrano la passione di Cristo. Dodici di esse sono opera di un pittore della seconda metà dell’800. Due riquadri invece, (la seconda caduta sotto la croce e l’incontro con le pie donne) sono stati dipinti dal già citato Raffaele Marigo. Dello stesso autore è anche la pala dell’Assunta, posta sulla parete d’ingresso, copia di quella omonima di Tiziano Vecellio, conservata a Venezia nella basilica dei Frari. Fu dipinta negli anni 1962-63, risultato di una paziente e diuturna fatica, funestata dalla morte dell’arciprete, don Basilio Gaspari, precipitato dall’alto dell’impalcatura, mentre ne ammirava l’esecuzione (22 ottobre 1962). La confezione della cornice di noce-massonia, del peso di ben 20 quintali, fu curata dall’intagliatore Pietro Trevisi che ripetè le stesse decorazioni della cornice originale di Venezia, a volute spiraliformi, ornate di foglie di acanto.
IL SOFFITTO
E’ a forma di botte leggermente arcuata, costrutto mediante un impasto di malte grasse colate tra costoloni lignei e graticci (opus fúsile). Il suo peso grava su un cornicione a forte aggetto, sostenuto da piedritti o paraste, sormontati da semicapitelli di stile corinzio. E’ diviso in tre riquadri ottagonali a linee mistiformi, simmetricamente disposti lungo l’asse della lunghezza. 11 riquadro centrale è dedicato al mistero dell’Assunzione della Vergine, dipinto a fresco in tre registri. Nel mediano è figurata la Madre di Dio, in ginocchio sulle nubi, nell’atto di salire al cielo. E’ circondata da un alone di angeli musicanti e di angioletti in tripudio. Sopra, l’Eterno Padre apre le braccia nell’atto di accogliere la benedetta fra tutte le donne. Sotto, quattro apostoli (si riconosce, col volto giovanile, S. Giovanni) partecipano alla scena in atteggiamenti tra lo sbigottito, l’incredulo e l’adorante. Nel mezzo della linea inferiore, un riquadro porta la data dell’esecuzione dell’opera (1853), di cui però rimane ignoto il pittore.
Il riquadro di levante rappresenta S. Antonio da Padova, il primo dei due compatroni della chiesa. Il tanto celebre quanto amato taumaturgo è delineato in posizione eretta, sulle nubi, di profilo, a figura intera. La mano sinistra è posta sul petto, la destra rivolta verso la Terra, quasi nell’atto di elargire le grazie ai suoi devoti. E’ rivestito del saio marrone (di color pepe-sale alle origini) dei Frati Minori Francescani del suo ordine, cinto ai fianchi da un cordone biancastro a tre nodi per ricordare i tre voti di castità, povertà ed obbedienza. Mentre un angelo, ad ali spiegate, lo sorregge, un altro, più paffuto, gli sta di fronte nell’atto di porgergli un giglio, simbolo del candore verginale del frate, uno degli attributi a lui specifici, assieme al libro dei Vangeli e al bimbo Gesù in braccio.
L’ultimo riquadro, quello di ponente, rappresenta il secondo compatrono della pieve, S. Vincenzo Ferreri, il celeberrimo taumaturgo dell’ordine dei Frati Predicatori o Domenicani, nato a Valenza in Spagna il 23 gennaio del 1350 (secondo altri nel 1347), e morto a Vannes in Bretagna il 5 aprile del 1419. Fu apostolo itinerante per l’Europa. Il suo culto si espanse prima della sua canonizzazione, decretata dal papa valenzano Callisto III il 29 giugno 1455 e promulgata 1’1 ottobre 1458 da Pio II, il coltissimo umanista del Rinascimento Italiano, mediante una bolla composta e scritta di suo pugno. E’ figurato seduto sulle nubi, rivestito del saio bianco e della cappa nera, proprie del suo Ordine. Regge con la sua mano sinistra un crocefisso, mentre con l’indice della destra indica il cielo. Sullo sfondo, fuoriesce da una nuvola la tromba del giudizio universale, tema caro e ricorrente in quasi tutti i sermoni pronunciati dal santo, sermoni che iniziavano con la frase bonaria in lingua valenzana “Bona ghente”.
Il tema annunciato è tolto dall’Apocalisse (14,1-13), laddove si descrive un angelo che regge l’Evangelo Eterno ed esclama a gran voce: “Temete Dio e dategli gloria, perché è giunta l’ora del suo giudizio”. La frase era talmente frequente sulle sue labbra da diventare il motto riportato in tutte le sue effigie spagnole. Secondo alcune narrazioni, lui stesso, ancora vivente, si sarebbe considerato l’incarnazione dell’angelo apocalittico.
Nell’iconografia più corrente, soprattutto italiana (si vedano per una conferma la pala dell’oratorio Widman a Mira Porte e il belliniano dipinto del secondo altare della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia), è accompagnato però da un particolare ricco di significato se rapportato alla sua instancabile predicazione: sopra il capo gli è posta una lingua di fuoco che gli sarebbe apparsa a Bologna e in Catalogna. Essa è la forma con cui, il giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo si manifestò ai discepoli di Gesù; essi uscirono da quell’incontro esprimendosi in tutte le lingue e parlando “come profeti” (Atti degli Apostoli 2,1-18).
Le tre opere, sebbene spettacolari, evidentemente non hanno pretese di celebrità. E’ quel che di meglio ha profuso un artigiano dilettante. Dall’insieme si distinguono per la particolare cura le figure della Vergine e di S. Antonio. In relazione poi al cromatismo, è stridente l’azzurro cupo adoperato più volte, come nella veste di S. Giovanni, mentre piacevoli risultano la tinta del rosso e l’indefinito impasto di bianco e giallognolo con cui il pittore tentò di rendere le nubi e lo sfondo paradisiaco solcato dall’Assunta. Quasi una figurazione della diafana incorporeità, propria del regno dei beati intercessori.